La spinta all’aggregazione dei processi di acquisto ha avuto, fino a oggi, come principale motivazione, la ricerca del risparmio. L’uso ottimale delle risorse pubbliche è, sicuramente, fondamentale, tuttavia, l’azione della PA dovrebbe essere orientata non tanto al risparmio di breve termine, quanto al “value for money”, ossia alla ricerca del difficile equilibrio tra economicità, efficienza ed efficacia. Questo tema è stato oggetto di analisi e discussione nell’ambito dell’Osservatorio sugli acquisti in sanità di SDA Bocconi e Cergas. Questo cambiamento di paradigma non emerge solo dalle istanze delle aziende sanitarie e degli stakeholder (pazienti e clinici), ma anche dalla teoria di public management, che ha elaborato un nuovo quadro di riferimento, chiamato Public Value. Secondo questo nuovo paradigma, è la ricerca del valore che deve guidare l’azione pubblica e questa ricerca implica anche la revisione del rapporto con il mercato, che non deve essere visto semplicemente come un fornitore, ma deve diventare partner per rendere possibile il raggiungimento di obiettivi sfidanti. Acquistare secondo logiche di value for money significa che la stazione appaltante dovrebbe essere in grado di ottenere, a fronte di risorse date, il miglior risultato, misurato in termini di soddisfacimento dei fabbisogni degli stakeholder, degli obiettivi strategici aziendali e di policy.
In questo senso, il valore può essere declinato nella valutazione dell’efficienza (ottimizzazione del rapporto input/output), dell’economicità (minimizzazione del costo totale di possesso, da non confondere con l’aggiudicazione al minor prezzo) e dell’efficacia, la cui definizione richiede di porre in relazione tra loro, all’interno di un contratto, la qualità del bene/servizio, le performance del fornitore e, a un livello più alto, gli impatti sul paziente/sui percorsi di cura.
Per fare questo, è necessario abbandonare l’impostazione orientata ai risultati finanziari e operativi di breve periodo, per concentrarsi sui risultati di medio/lungo periodo. Tuttavia, acquistare secondo logiche di valore impone un forte commitment da parte degli enti preposti alla programmazione, e, quindi, in sanità, da parte del policy maker regionale, che deve dare un chiaro input alle centrali e alle aziende sanitarie, verso soluzioni, e non solo modalità di acquisto, che siano in grado di generare valore di medio-lungo termine. A valle, questo si deve tradurre in un approccio diverso sull’impostazione della gara e del contratto. Infine, è necessario misurare il valore generato, che non si consegue con una singola gara, ma, piuttosto, con un diverso approccio complessivo agli acquisti, a livello regionale e di Paese.
L’Osservatorio MaSan ha condotto una survey, coinvolgendo sia le centrali di committenza/soggetti aggregatori, sia le imprese associate, per comprendere come viene declinato, dalle due diverse prospettive, il concetto di valore e quali fattori limitano o ostacolano la creazione di valore attraverso gli acquisti centralizzati. Dall’analisi delle risposte fornite da 12 centrali regionali/soggetti aggregatori e da 11 tra i principali operatori economici sul mercato delle forniture/servizi in sanità emerge che il valore viene declinato nei termini riportati in tabella:
CENTRALI/ IMPRESE
Costo/Qualità Qualità/Sostenibilità Pazienti/Innovazione Benefici/Soluzioni
Pubblico e privato hanno entrambi chiara la necessità di trovare un bilanciamento tra costi e benefici – declinati in termini di qualità del bene/servizio, aderenza alle cure, appropriatezza, efficacia clinica, impatto sulla vita del paziente – ricercando soluzioni che garantiscano la sostenibilità del Ssn. Tuttavia, quando è stato chiesto alle imprese se le gare centralizzate, per come attualmente sperimentate, consentano di esprimere e valutare la value proposition aziendale, il 100% dei partecipanti alla survey ha risposto negativamente. La stessa domanda, riferita alle gare effettuate individualmente dalle aziende sanitarie, ha visto solo il 45% di imprese rispondere affermativamente sulla possibilità di queste ultime di esprimere valore.
Quali sono, allora, i fattori che impediscono di comprare valore? Per le imprese intervistate, al primo posto, con il 90% di risposte d’accordo e molto d’accordo, vengono citate le basi d’asta. Al secondo posto, troviamo la descrizione del fabbisogno, seguita dalla incoerenza dei criteri di valutazione rispetto all’oggetto d’acquisto. Dal punto di vista delle centrali, i primi tre ostacoli all’acquisto di valore sono: la capacità di analisi del mercato, la descrizione dei fabbisogni e la necessità di competenze tecniche nella definizione dei capitolati. La capacità di una gara di “catturare” valore è, quindi, strettamente correlata alla capacità di chi la bandisce nel porre le domande giuste al mercato e valutare coerentemente le risposte. Per porre la domanda giusta è necessario conoscere molto bene il fabbisogno attuale e prospettico e identificare i driver di creazione del valore su cui valutare le offerte. D’altro canto, le imprese fornitrici devono essere capaci di identificare e comunicare la loro value proposition in modo chiaro e trasparente.
È bene notare che, per imprese e centrali di committenza, il Codice dei Contratti Pubblici figura, rispettivamente, all’ultimo e al terzultimo posto su una lista di 15 fattori di ostacolo alla creazione di valore. Questo risultato è un segnale di una raggiunta maturità tecnica in tema di contratti pubblici, ed evidenzia come, in realtà, il dibattito politico, incentrato su modifiche al quadro regolatorio, non colga il problema di fondo degli appalti. Da un lato, è, infatti, necessaria una programmazione evoluta e in grado di cogliere le prospettive di cambiamento (ad esempio, in termini di organizzazione delle reti di cure, rapporto ospedale-territorio, livello di copertura dei bisogni, definizione dei percorsi diagnostici, utilizzo delle tecnologie digitali), senza la quale non è possibile definire una strategia di acquisto orientata al valore, dall’altro, occorre potenziare decisamente le risorse umane e organizzative, per potere gestire in modo adeguato i processi di acquisto, di cui le procedure costituiscono solo un aspetto. In tal senso, è chiaro che le continue modifiche al quadro normativo non sono d’aiuto.
Posto che il deficit di politiche attive in questa direzione non è colmabile in tempi brevi, senza investimenti adeguati, quali azioni concrete possono intraprendere le centrali di committenza regionali per creare valore per il sistema sanitario? Per rispondere a questa domanda, identifichiamo, qui, alcune azioni che possono essere intraprese a livello strategico, organizzativo e, infine, di singolo acquisto.
Da un punto di vista strategico, occorre ripensare l’attività di acquisto in chiave non di prodotti/mercati, ma di pazienti/percorsi di cura, in modo da riflettere la capacità degli acquisti di supportare l’erogazione di cure/servizi alla popolazione. Porre il paziente al centro, al di là degli slogan, è un modo per coordinare l’operato delle centrali di committenza non solo – a valle – con il mondo clinico e le aziende sanitarie, ma anche – a monte – con chi si occupa di programmazione sanitaria nelle Regioni. Le centrali dovrebbero svolgere appieno il ruolo di pivot attorno a cui è costruito il sistema a rete degli acquisti che si è delineato negli ultimi anni. In molti casi, si ha, invece, l’impressione che la centrale agisca più da fornitore esterno di servizi di gestione gare, che da cardine della governance delle strategie di acquisto. Questo dipende, ovviamente, dal contesto istituzionale in cui opera ciascuna centrale, ma sarebbe importante cogliere la sfida di far evolvere la funzione acquisti da mera esecutrice a strategica, anche attraverso un’azione coordinata nella sede del Tavolo dei soggetti aggregatori.
In termini di programmazione, le centrali, anziché essere organizzate funzionalmente per categorie merceologiche, dovrebbero avere una struttura a matrice, in cui, orizzontalmente, i responsabili per Pdta/Paziente si interfacciano con i responsabili di categoria merceologica. Secondo questa organizzazione, ad esempio, esisterebbe un responsabile di tutti gli acquisti inerenti la cura dei pazienti affetti da scompenso cardiaco con il compito di assicurare un coordinamento dei documenti di gara e contrattuali degli acquisti che impattano su tale percorso di cura, gestiti dai singoli responsabili di merceologia.
Questa struttura aiuterebbe a orientare l’attività d’acquisto verso il paziente, faciliterebbe l’interazione con gli stakeholder e stimolerebbe un maggiore coordinamento, quanto meno a livello di obiettivi condivisi, tra i diversi contratti e procedure di selezione.
A livello più operativo, occorre sviluppare una gestione per portfolio di contratti, anziché per singola procedura. A questo fine, occorrerebbe fare sì che i documenti di programmazione si evolvano, diventando, da meri elenchi di procedure da svolgere, veri e propri programmi operativi, secondo, ad esempio, il modello di Horizon 2020, il programma di ricerca europeo, in cui vengono pubblicati dei programmi operativi biennali.
Dal programma di ricerca europeo si potrebbe, inoltre, mutuare il metodo di programmazione, con la costituzione di gruppi di lavoro di specialisti che, a livello alto, concorrono alla definizione dei grandi obiettivi strategici che devono, poi, essere declinati all’interno dei singoli bandi. Tale possibilità potrebbe rientrare in quanto previsto dall’art. 66 del Codice dei Contratti Pubblici. Ciò detto, l’istituzione di un metodo di consultazione più strutturato, aperto ai vari stakeholder e attivato in uno stadio antecedente rispetto alla programmazione vera e propria, non necessita di una base giuridica specifica nel Codice dei Contratti Pubblici, purché siano adottate le necessarie precauzioni al fine di evitare qualsiasi tipo di vantaggio competitivo – a valle – per i partecipanti. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare – mutatis mutandis – una struttura di “partenariato” in senso ampio, sulla scorta di quanto previsto in sede di programmazione dei Fondi strutturali europei, per la quale è richiesto il coinvolgimento dei partner (intendendosi per tali le autorità pubbliche competenti, le parti economiche e sociali, gli organismi rappresentativi della società civile, compresi i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione dell’inclusione sociale, della parità di genere e della non discriminazione) al fine di assicurare un approccio della governance a più livelli, sulla cui base definire la strategia e le priorità, nonché le modalità di impiego efficace ed efficiente dei fondi. A questo scopo, il metodo si potrebbe tradurre nella costituzione di tavoli/commissioni in cui possono trovare voce i vari stakeholder del Ssr, ivi comprese le imprese. Questo modello è stato, ad esempio, adottato in Regione Toscana, con la Commissione di Valutazione delle Tecnologie e Investimenti. A questo livello, ancora distante dalla gara vera e propria e, quindi, con meno pressioni competitive, si potrebbe discutere più liberamente delle soluzioni innovative presenti nel mercato e di come introdurle nel sistema attraverso gli acquisti.
A livello di singolo acquisto, la creazione di valore passa dall’assicurare una stretta coerenza tra cosa si vuole acquistare, quali risultati si vogliono ottenere, e gli strumenti contrattuali – prima – e procedurali di aggiudicazione – poi – da utilizzare.
La scelta del modello contrattuale dipende, ovviamente, dall’esigenza che l’Amministrazione vuole soddisfare. I modelli contrattuali tipizzati dal Codice dei Contratti Pubblici sono, esclusivamente, appalti e concessioni. Nei primi, l’Amministrazione, a fronte di una prestazione definita, remunera l’operatore economico tramite un prezzo che copre tutti i costi e l’utile d’impresa. In tal caso, in termini contrattuali, l’operatore non si assume alcun rischio, oltre al normale rischio imprenditoriale – definito dall’art. 2082 del Codice Civile -, insito in ogni attività d’impresa (inadempimento contrattuale, ritardi o errori di esecuzione). Nelle concessioni, di converso, l’Amministrazione, a fronte di una richiesta di soddisfacimento di una sua esigenza funzionale, concede all’operatore economico il diritto remunerarsi tramite la gestione dell’investimento e del servizio. In questo caso, il concessionario si assume il rischio operativo – definito dagli artt. 5 della Direttiva Concessioni e 3, comma 2, lett. zz) del Codice dei Contratti Pubblici -, ossia il rischio che la gestione del servizio non gli consenta di recuperare pienamente tutti i suoi investimenti e i costi dell’attività svolta contrattualmente. Il contenuto del contratto di concessione è definito in modo che il recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti dall’operatore economico dipenda dall’effettiva fornitura del servizio o utilizzabilità dell’opera o dal volume dei servizi erogati in corrispondenza della domanda e, in ogni caso, dal rispetto dei livelli di qualità contrattualizzati. È bene notare che le concessioni possono essere di lavori o di servizi o miste, ossia inclusive sia di lavori, che di servizi, ma non di fornitura. In tale ottica, i beni messi a disposizione dall’operatore economico non possono essere considerati quali acquisti tout court, ma devono essere finalizzati e strumentali alla prestazione – che, a sua volta, deve essere conforme a livelli di qualità prestabiliti -, di un servizio, inteso nel senso sia del servizio di supporto reso dall’operatore economico all’Amministrazione, sia – soprattutto in sanità – del servizio reso dall’Amministrazione stessa agli utenti. Volendo sintetizzare, un contratto di appalto riesce a fotografare in un dato momento una determinata allocazione di rischi/responsabilità cristallizzandola in determinate clausole contrattuali (salvo la possibilità di ricorrere ad alcuni meccanismi di flessibilità previsti dalla norma). Una concessione opera, invece, in modo dinamico, responsabilizzando l’operatore economico al raggiungimento di un determinato risultato.
Da un punto di vista economico, un contratto costituisce un insieme di incentivi per consentire un’allocazione ottimale dei rischi tra acquirente e fornitore e minimizzare i cosiddetti “rischi di agenzia” derivanti da comportamenti opportunistici delle parti (ovvero il principale e l’agente). Gli strumenti cardine sono il meccanismo di remunerazione e la definizione di un sistema di penali/premi. In un contratto di concessione, il trasferimento effettivo del rischio operativo, esponendo il concessionario al rischio concreto di subire delle perdite economiche – che vanno ben oltre la mera penale, dal momento che possono erodere l’investimento iniziale -, costituisce un incentivo molto forte per l’operatore economico a raggiungere i risultati stabiliti, sia come tempi, sia come livelli quali-quantitativi. La modalità concreta di trasferimento del rischio operativo, specie in un’operazione a tariffazione sulla Pubblica Amministrazione, è la costruzione di un meccanismo di remunerazione e di decurtazioni in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi adeguato rispetto al tipo di prestazioni e alla corretta ripartizione dei rischi in capo al soggetto che li può gestire meglio. In un contratto di appalto, invece, l’Amministrazione può agire solamente mediante un sistema di penali, collegate all’inadempimento contrattuale, dovendo, però, attenersi al limite del 10% sul valore del contratto, oltre il quale scatta la risoluzione dello stesso. Questo limite non costituisce un incentivo all’efficienza per l’appaltatore e risulta essere, di converso, un deterrente per l’Amministrazione nel sanzionare le inadempienze. Sarebbe, quindi, più efficace operare attraverso un sistema di premi, ma normalmente le Amministrazioni non dispongono delle risorse economiche per operare in tal senso, né sentono di poter esercitare un così ampio livello di discrezionalità amministrativa – seppur sancito dall’art. 97 della Costituzione – in fase di esecuzione del contratto.
Nel caso delle concessioni, l’incentivo è, invece, insito nella natura stessa del contratto.
Peraltro, nell’ambito degli appalti, gli incentivi potrebbero essere strutturati utilizzando i meccanismi di flessibilità previsti dall’articolo 106 del Codice dei Contratti Pubblici (mentre, per le concessioni, si applica l’art. 175, di contenuto simile), collegando le opzioni contrattuali al raggiungimento di target di performance o determinati obiettivi strategici in termini di innovazione ed efficacia durante la vita del contratto. Nel caso dei contratti di appalto, tuttavia, il margine per utilizzare tali meccanismi è più ristretto, vista la mancanza di una adeguata pianificazione della gestione del rischio, nell’ambito contrattuale.
Riguardo alla scelta delle procedure, è giunto il momento che le Amministrazioni si approprino in modo compiuto di tutte le possibilità offerte dal Codice dei Contratti Pubblici. La scelta della procedura, nel rispetto dei principi degli appalti pubblici, deve essere tarata sulle caratteristiche dell’oggetto del contratto e del mercato, oltre che sugli obiettivi da perseguire.
Concludendo, è importante evidenziare che gli strumenti offerti dall’attuale quadro normativo – quantunque migliorabili – sono già sufficienti per ottenere acquisti in grado di generare valore, ma devono essere utilizzati nell’ambito di una strategia consapevole e lungimirante.
Troppo spesso, ciò che manca, dal lato pubblico, è la consapevolezza, nei vertici politici e aziendali, del ruolo strategico degli acquisti, al di là del semplice ottenimento di risparmi o del rispetto delle norme. Elevare il ruolo degli acquisti da “semplice” processo amministrativo, a strumento strategico consentirebbe di rafforzare e rendere trainante il legame tra programmazione sanitaria e acquisti. A livello operativo, nonostante l’istituzione del fondo per i soggetti aggregatori, gli sforzi per dotare le centrali di committenza delle competenze e degli strumenti necessari appaiono insufficienti. Lo sblocco del turnover deve essere l’occasione per rafforzare anche il lato amministrativo e non solo sanitario del Ssr.
Le imprese, dal canto loro, devono essere in grado di sviluppare una chiara value proposition e un vero approccio al cliente. In un contesto in cui il mercato è stato sempre abituato a rispondere a bandi, senza alcuna possibilità di reale interazione, è comprensibile che questi aspetti non abbiano trovato, in passato, lo spazio adeguato. In un’ottica di partnership, elemento caratterizzante il modello del public value, il cliente pubblico deve avere chiaro cosa può aspettarsi dal mercato, non solo da un punto di vista tecnico, ma anche con riferimento alla capacità di trovare soluzioni a problemi complessi. L’approccio al cliente non deve più limitarsi al momento della gara, o a livello operativo/amministrativo in fase di esecuzione del contratto, ma deve essere sviluppato in modo da favorire un confronto, anche in fase di programmazione, per individuare modelli più appropriati di intervento, capaci di generare value for money.
Infine, non va tralasciato che il sistema pubblico ha un ruolo fondamentale per stimolare la capacità di innovazione del mercato. Continuare a perseguire un modello di acquisto volto a rinnovare contratti in scadenza e a ottenere risparmio di breve termine rischia di generare, nel medio termine, ricadute negative anche sul sistema economico.
Affrontare l’innovazione richiede una maggiore capacità di governare, e accettare, il rischio. Per questo motivo più competenze, nel pubblico e nel privato, sono necessarie, ma anche una maggiore sensibilità da parte di altri stakeholder: spesso gli acquisti in sanità sono stati terreno di scontro di una classe politica impreparata.
* SDA Bocconi school of management